IV DOMENICA DI PASQUA
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10, 27)
Ascoltare, conoscere, seguire, i tre verbi che caratterizzano chi ama.
Ascoltare non è solo sentire, è un atteggiamento del cuore, è un cercare di vedere dentro l’altro per quello che è, nonostante le apparenze. Solo così è possibile conoscere, cioè guardare qualcuno con gli occhi di Dio vedendolo con tutte le sue fragilità, le sue difficoltà, le sue sofferenze, ma anche con tutto ciò che di positivo è in lui. Spesso ci accontentiamo di ciò che vediamo superficialmente o del sentito dire, rischiando così di perdere dei doni grandi che il Signore mette sulla nostra strada.
SAN GIUSEPPE
CUSTODE DELLE VOCAZIONI
San Giuseppe ci suggerisce tre parole-chiave per la vocazione di ciascuno. La prima è sogno. Tutti nella vita sognano di realizzarsi. È l’amore a dare senso alla vita, perché ne rivela il mistero. La vita, infatti, si ha solo se si dà, si possiede davvero solo se si dona pienamente.
Una seconda parola segna l’itinerario di San Giuseppe e della vocazione: servizio. Dai Vangeli emerge come egli visse in tutto per gli altri e mai per sé stesso. Il Popolo santo di Dio lo chiama castissimo sposo, svelando con ciò la sua capacità di amare senza trattenere nulla per sé. Liberando l’amore da ogni possesso, si aprì infatti a un servizio ancora più fecondo: la sua cura amorevole ha attraversato le generazioni, la sua custodia premurosa lo ha reso patrono della Chiesa.
Mi piace pensare allora a San Giuseppe, custode di Gesù e della Chiesa, come custode delle vocazioni. Dalla sua disponibilità a servire deriva infatti la sua cura nel custodire. Che bell’esempio di vita cristiana offriamo quando ci prendiamo cura di quello che il Signore, mediante la Chiesa, ci affida! Allora Dio riversa il suo Spirito, la sua creatività, su di noi; e opera meraviglie, come in Giuseppe. Nella casa di Nazareth, dice un inno liturgico, c’era «una limpida gioia». Era la gioia quotidiana e trasparente della semplicità, la gioia che prova chi custodisce ciò che conta: la vicinanza fedele a Dio e al prossimo. È la gioia che auguro a voi, fratelli e sorelle che con generosità avete fatto di Dio il sogno della vita, per servirlo nei fratelli e nelle sorelle che vi sono affidati, attraverso una fedeltà che è già di per sé testimonianza, in un’epoca segnata da scelte passeggere ed emozioni che svaniscono senza lasciare la gioia. San Giuseppe, vi accompagni con cuore di padre!
Papa Francesco – Roma, San Giovanni in Laterano, 19 marzo 2021, Solennità di San Giuseppe
Santa Caterina da Siena
La Chiesa ci offre, oggi, gli occhi della grande Santa Caterina, per guardare a Cristo come lei lo guardava! Leggiamo, nel Dialogo della divina Provvidenza: «O misericordia! Il cuore ci s’affoga a pensare di te ché, ovunque io mi volgo a pensare – ovunque io mi volgo a guardare – non trovo altro che misericordia» (DdP, XXX).
Ciò che davvero conta, l’unica cosa che conta, la suprema è questo “affogarsi” del nostro cuore nella misericordia di Cristo. Allora le tenebre della nostra vita divengono un fuoco di luce, «fuoco sopra ogni fuoco» ripete incessantemente santa Caterina; non c’è punto della realtà nel quale non rifulga, che non riverberi, questo splendore del gesto di Dio che dal nulla della nostro essere creatura e del nostro peccato, continuamente ci ricrea.
Affogare il cuore in questo sguardo che ovunque vede solo misericordia è riconoscere che tutto è “impastato” dal sangue di Cristo, dal sangue della sua commossa tenerezza per noi. I nostri rapporti e i nostri gesti, i nostri tempi e le nostre differenze, così come le nostre umane avversità, tutto è “impastato” e “legato” dal sangue di questa divina misericordia.
Questo era lo sguardo di Santa Caterina sulla realtà, anche sulla realtà travagliata della Chiesa del suo tempo, guardando alla quale, per qualche istante, potremmo essere addirittura consolati dalle nostre odierne tribolazioni.
“Dalla Resistenza al futuro, il compito di educare”
Ad arricchire quella mappa della memoria che nella nostra città è incastonata nei marciapiedi con 132 Pietre d’inciampo, da oggi c’è anche quella dedicata al giovane presidente della Fuci milanese Carlo Bianchi, ucciso a Fossoli il 12 luglio 1944 insieme ad altri 66 martiri e ricordato dall’Arcivescovo nel 2019 presso il Campo della Gloria al cimitero di Musocco. La colpa del giovane Bianchi fu quella di credere nella libertà e nella dignità dell’uomo, che vedeva calpestate dal regime fascista. Venne la guerra, e in risposta alla lettera pastorale in cui l’Arcivescovo Schuster il 21 febbraio 1943 invitava gli universitari a operarsi per rispondere alle esigenze di una Milano lacerata da bombardamenti e lutti, Carlo Bianchi fondava la «Carità dell’Arcivescovo» per l’assistenza ai bisognosi della città. Oltre all’impegno caritatevole, Bianchi si impegnò in politica, entrando nel ’44 nel Cln milanese, dove introdusse anche Teresio Olivelli. Insieme fondarono il giornale Il Ribelle e collaborarono con Oscar, la rete clandestina di giovani e preti della nostra Diocesi che riuscì a salvare migliaia di ricercati politici e razziali e a cui partecipò anche don Giovanni Barbareschi, ultimo a vedere Bianchi in vita.
Era una situazione di grande rischio, di cui Carlo Bianchi, giovane marito e appena diventato padre, era ben consapevole. A seguito di una delazione, infatti, il 27 aprile lui e Olivelli furono arrestati dagli agenti italiani delle SS e rinchiusi in isolamento nel carcere di San Vittore.
L’11 luglio 1944 venne annunciato il trasferimento dei prigionieri: in realtà furono portati nel vicino poligono di Cisbeno e fucilati. Gettati in una fossa comune, i corpi di Carlo Bianchi e degli altri 66 martiri di Fossoli vennero riesumati dopo la Liberazione. Le solenni onoranze funebri furono celebrate dallo stesso cardinal Schuster il 24 maggio 1945, che volle ricordare con commozione «il buon giovane Carlo Bianchi» e «l’entusiasmo dei suoi trent’anni