Sono passati quasi sette mesi dal mio arrivo in Zambia. Un periodo brevissimo per entrare in un mondo completamente diverso dal nostro ma sufficiente per iniziare a confrontarsi con una realtàche emerge con sempre più evidenza: sono uno straniero.
La gente, soprattutto quella della parrocchia, è molto accogliente e spesso anche curiosa e deferente nei miei confronti. Essere straniero qui non vuol certo dire essere rifiutato o messo ai margini. Spesso anzi è la sensazione contraria: il prete e per di più bianco, è considerato un’autorità quasi indiscussa. Ogni mattina ne
ho la prova quando saluto Ireen, la signora che ci tiene ordinata la casa. Al mio: “Good morning Ireen”, lei immancabilmente risponde: “Yes Father” come se dovesse già obbedirmi anche se l’ho solo salutata.
Qualche domenica fa a Messa mi è balzato evidente la mia incancellabile condizione di straniero. Dovevo celebrare una in città a Mazabuka e una nel villaggio di Nzingu, il più povero e sperduto tra le nostre outstation. Alla Messa in città avevo invitato a predicare un giovane diacono zambiano che sarà ordinato a breve. Si era preparato una bella predica e mentre lo ascoltavo non potevo non ammettere con molta umiltà, che la sua predicazione di “pivellino” era però capace di
parlare la stessa lingua dell’assemblea. Questo non solo perché intrecciava almeno due lingue (inglese più Tonga) ma perché i temi che toccava, le battute e gli esempi che faceva, le espressioni e lo stesso modo di porgere la predicazione erano certamente più efficaci del mio.
La gente era profondamente coinvolta e partecipe. Per me una occasione per una salutare riflessione. Partito in macchina dopo Messa, ho poi celebrato nel villaggio avendo preparato con grande fatica quattro pensieri in Tonga lingua che attualmente riesco a leggere ma non a parlare o capire. Mentre leggevo la mia predica e sbirciavo l’assemblea (una ventina di persone) pensavo a come fossero povere: non solo vivono in capanne e se va bene mangiano una volta al giorno, non solo quasi tutti si erano fatti almeno un’ora a piedi per venire alla Messa ma alla fine si trovavano a celebrare un prete bianco che massacrava la loro lingua riuscendo a balbettare qualche pensiero molto elementare nella forma soggetto-verbo-predicato-punto. Mi meraviglia immensamente la loro fede e il loro attaccamento alla Chiesa Cattolica quando potrebbero andare in una delle numerosissime chiese di derivazione protestante dove avrebbero ascoltato un sermone pirotecnico dei loro predicatori showman.
Qualche giorno fa mentre dicevo le Lodi mi è capitato che queste mie riflessioni incrociassero un versetto del salmo 39 che mai mi aveva interessato prima: “Castigando il suo peccato tu correggi l’uomo, corrodi come tarlo i suoi tesori”. Le termiti qui in Africa sono una presenza molto visibile negli enormi nidi di terra che come torri sorgono un po’ ovunque o per la quotidiana battaglia perché non si divorino mobili, sedie, scrivanie,… Appena si avvistano i tipici mucchietti di
segatura, subito bisogna trovare il buco e iniettare il veleno altrimenti in breve tempo si mangerebbero tutto. Nei preventivi dei lavori che stiamo raccogliendo non manca mai la voce “veleno per termiti” con cui sempre si deve cospargere le fondamenta delle case… Ecco allora che il versetto del salmo trova qui in Africa una sua evidenza quotidiana. Dio, come nel caso del profeta Giona, si fa talvolta termite per consumare dall’interno tanti “nostri tesori” (fondamentale l’aggettivo possessivo dal sapore un po’ ironico) che pensavamo inattaccabili e indistruttibili.
Essere straniero ti mette presto davanti all’alternativa se continuamente combattere le termiti che da tutte le parti ti assaltano per attaccare molte tue convinzioni e tradizioni (a livello ecclesiale, pastorale, culturale, culinario, …) oppure lasciare che Dio lavori come termite per portare alla luce i suoi tesori che spesso si nascondono imprevisti laddove non avresti mai pensato o cercato (da leggere assolutamente il racconto “la Madonna brutta” di Guareschi, un vero Padre della Chiesa che mi sta facendo molta compagnia).
Alla fine quindi essere straniero vuol dire riconoscere quotidianamente che non sono qui per inseguire o insegnare miei pallini o strategie ma per inseguire e cercare sempre Colui che mi ha mandato. In questi giorni come esercizio sto leggendo il vangelo di Giovanni in Tonga e fa impressione come Gesù si definisca in modo quasi ossessivo “inviato” (ndakatumwa in Tonga) in un continuo riferimento a “colui che mi ha mandato” (ooyu wakatumwa). Chi più di Lui che veniva
dalla bellezza della comunione trinitaria (meglio anche dell’Italia!), si deve essere sentito straniero sulla terra. Eppure chi più di Lui è stato capace di commozione e comunione con ogni uomo proprio a partire da quella continua ricerca delle parole e delle azioni di “colui che lo ha mandato”.
Forse allora l’esperienza dell’essere straniero è quella che siamo chiamati a fare tutti in qualche modo nella vita: ogni altra appartenenza che non sia quella a Dio sarà sempre insufficiente e troppo povera. La povertà di essere stranieri invece apre le porte a una comunione nuova che nasce solo dallo Spirito capace di fare intendere il Vangelo in tutte le lingue del globo e, si spera, di dare consistenza anche al mio balbettante Tonga da primary school. Scrive Paolo, straniero per vocazione con il suo pellegrinare missionario in mezzo mondo: “Non siete più stranieri né ospiti ma concittadini dei santi e familiari di Dio”. Scusate se è poco. Per
questo vale la pena lasciarsi intaccare dalle termiti e anche rinunciare alla pastiera la notte di Pasqua.