Origine dei Vangeli
Nessun altro testo nella storia dell’umanità, come quei quattro libretti che totalizzano 64.327 parole greche, ha sollecitato una simile attenzione. Un’opera la cui genesi si può paragonare a quella di un fiume che nasce da una sorgente, si dirama in forma ancora esitante, raggiunge un percorso più placido e solenne, alimentato dalle acque degli affluenti e approda al suo delta finale, in quattro stesure differenti che riflettono però il volto unico del Dio fattosi uomo.
«Ciò che deve rimanere ben fisso nello studio dei Vangeli è un equilibrio molto delicato ma decisivo. Esso è stato formulato nel linguaggio teologico col termine Incarnazione sulla scia di quella celebre affermazione del prologo del Vangelo di Giovanni: “la Parola divenne carne”. La perfetta trascendenza della Parola creatrice, salvatrice e rivelatrice di Dio entra nella fragilità carnale dell’uomo Gesù».
Il loro genere letterario è, in un certo senso, unico, il genere detto appunto “vangelo”, come lo era quello della stessa predicazione che li precedeva. Essi partono dalla storia di Gesù di Nazaret ma non è alla sua ricostruzione rigorosa che dedicano tutti i loro sforzi. Quei dati vengono, infatti, interpretati e compresi nel loro significato più profondo e trascendente.
Di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 25.02.2007)
Il fiume e il delta. È un’immagine che spesso si usa quando si inizia una ricerca storico-letteraria (e nel nostro caso anche teologica) in un terreno già esplorato e perciò segnato da orme e da piste: si è soliti parlare di una foresta bibliografica. Ebbene, questo simbolo è del tutto pertinente quando ci si mette a scrivere qualcosa sui Vangeli perché alle spalle dello studioso o del semplice appassionato si distende un’immensa selva di libri, di analisi, di approfondimenti, di documenti. Nessun altro testo nella storia dell’umanità, come i quattro libretti dei Vangeli che totalizzano solo 64.327 parole greche, ha sollecitato una simile attenzione dagli esiti molto variegati.
Quello che noi proporremo ora sarà, perciò, solo una pallida sintesi e uno schema scheletrico che deve rimandare a studi ben più ponderosi e compiuti. Per delineare il nostro itinerario ricorreremo a un’altra immagine, quella di un fiume che nasce da una sorgente, si dirama in forma ancora esitante, raggiunge un percorso più placido e solenne, alimentato dalle acque degli affluenti e approda al suo delta conclusivo. Ora, “in principio” è necessario porre la figura di Gesù la cui carta d’identità minima potrebbe essere così definita:
- – Nome: Gesù, in ebraico Jeshû’, abbreviazione di Jehoshû’a (“Il Signore salva”).
- – Paternità legale: Giuseppe, in ebraico Josef. Secondo lo stile semitico il cognome sarebbe ben-Josef (“figlio di Giuseppe”; vedi Luca 4, 22).
- – Maternità: Maria, in ebraico Myriam (forse “la elevata, esaltata”).
- – Luogo di nascita: Betlemme di Giudea
- – Data di nascita: “ai tempi del re Erode” (Matteo 2,1), durante “il primo censimento” di Quirinio, governatore della Siria (Luca 2, 1-2). Siamo forse attorno al 6 a.C.
- – Residenza: Nazaret in Galilea; poi senza fissa dimora.
- – Stato civile: celibe.
- – Professione: carpentiere; poi rabbì ambulante.
Alle origini, dunque, c’è questa figura storica, la sua predicazione e attività pubblica per le strade, i villaggi e le città prima della Gal ilea, la regione settentrionale, e poi della meridionale Giudea, e infine la sua morte a Gerusalemme. Un evento “misterioso” (a livello storico e teologico, ma ovviamente con sensi diversi), la sua risurrezione, dà al fiume il primo impulso che impedisce alle acque di ristagnare o di essere assorbite dal terreno. Esse, infatti, scorrono e quel fluire un po’ variegato tra colline e valli è l’annunzio che i discepoli di Cristo faranno negli anni successivi alla sua morte. È quel kèrygma o “annunzio” essenziale della vita, delle opere, del messaggio, della morte e della risurrezione di Gesù che viene destinato a ebrei e pagani ma che è anche sviluppato in vere e proprie lezioni di catechesi per coloro che hanno già fatto una prima scelta per Cristo. Non si tratta di pura e semplice memoria di atti e di detti: quei ricordi sono, infatti, illuminati dall’esperienza dell’evento della pasqua di Cristo vissuta dalla comunità dei discepoli, un’esperienza che li ha trasformati in veri e propri “apostoli” e testimoni.
Il fiume comincia ad irrobustirsi; fuor di metafora, nascono probabilmente i primi testi scritti, sono quasi dei “protovangeli”. Su di essi possiamo solo formare ipotesi, vagliando i Vangeli terminali a noi giunti e certe macchie omogenee di colore che essi rivelano. Certamente nacque subito un antico racconto della passione-morte-risurrezione di Gesù; si formarono narrazioni sull’infanzia di Gesù, trasfigurate alla luce della fine tragica e gloriosa di quella vita. Secondo molti studiosi sorsero anche alcune collezioni di “detti” – o, come si dice in greco, di lóghia – pronunziati da Cristo. Tra di esse è da menzionare quella che gli esegeti denominano convenzionalmente “fonte Q” (dal tedesco Quelle, cioè “fonte”) e che fu anticipata già agli inizi dell’Ottocento dagli studi sui Vangeli del filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher. Questa raccolta di parole di Gesù è da molti considerata come una delle fonti ben identificabili nei primi tre Vangeli. Non manc arono forse anche libretti che elencavano una serie di atti miracolosi di Gesù. E qualche studioso afferma ancora, sulla scia di una convinzione diffusa in passato, l’esistenza anche di una prima edizione del vangelo di Matteo in aramaico, la lingua popolare della Palestina di allora.
Ma ormai stiamo per giungere al delta del fiume: è una foce a quattro bracci. Le acque precedenti vi si convogliano su percorsi differenti, mentre altre onde confluiscono da diversi corsi d’acqua. Siamo giunti ai Vangeli. Tre di essi si organizzano secondo una planimetria piuttosto omogenea, sono i cosiddetti “Vangeli sinottici”. Il termine deriva dal greco e suppone che con uno sguardo (opsis) d’insieme (syn-) i Vangeli di Matteo, Marco e Luca possano essere colti come un trittico parallelo le cui scene sono sostanzialmente omogenee o per lo meno rivelano coincidenze significative. Per spiegare questo fenomeno, detto “questione sinottica”, si è ricorsi a decine e decine di ipotesi tra le quali particolare fortuna ebbe la cosiddetta “teoria delle due fonti”. Contrariamente a quanto si riteneva nell’antichità cristiana e nei secoli successivi, il primo Vangelo fu quello di Marco (non quello di Matteo che apre ancora oggi il Nuovo Testamento nelle edizioni ufficiali): non fu, dunque, Marco a sintetizzare Matteo ma furono Matteo e Luca ad ampliare Marco, loro fonte primaria, usando un altro testo di riferimento, la “fonte Q” che abbiamo sopra descritta e che conservava soprattutto parole di Gesù, e altre fonti proprie a Matteo e Luca.
Ultimo braccio: Giovanni. L’ultimo braccio del delta della tradizione di Gesù Cristo è, come noto, il Vangelo di Giovanni che, messo in “sinossi” col trittico Marco-Matteo-Luca, rivela una sua originalità di fonti oltre che diverse redazioni successive. Ebbene, nella tetrade dei Vangeli confluiscono memorie storiche di Gesù e su Gesù che la testimonianza dei primi discepoli, la predicazione cristiana o kèrygma, gli eventuali primi scritti avevano elabor ato, interpretato, arricchito e ampliato. Come ha insegnato una scuola esegetica, detta in tedesco di Redaktionsgeschichte, cioè di “storia della redazione”, i singoli evangelisti non ripeterono materialmente i dati ricevuti dalla prima tradizione cristiana, quasi fossero meri compilatori, ma li selezionarono, li adattarono alle comunità a cui li indirizzavano, li ordinarono comportandosi da veri “redattori”, li interpretarono secondo le proprie prospettive teologiche. È per questo che il profilo di Gesù Cristo nei quattro Vangeli è sostanzialmente lo stesso ma ha lineamenti nuovi, sottolineature differenti, espressioni inedite secondo ciascun vangelo. È ciò che, ad esempio, aveva già intuito il celebre autore dei Racconti di Canterbury, Geoffrey Chaucer (1340 ca.-1400), quando nel Racconto di Melibeo a proposito della narrazione della passione di Gesù secondo i vari evangelisti, osservava: «Voi sapete che ogni evangelista non ci narra il martirio di Gesù Cristo del tutto nello stesso modo del suo compagno. Eppure tutti i loro racconti sono veri e tutti concordano nel senso che, se pur vi sono discrepanze nel modo del racconto, perché uno dice di più e l’altro di meno nelle pagine che descrivono la sua compassionevole passione, il significato generale è però indubbiamente uno solo».
Genere unico. A questa osservazione del tutto pertinente dobbiamo aggiungere una nota sulla qualità specifica dei Vangeli. Da un lato, bisogna evitare la Scilli del mito o della pura e semplice teologia, quasi essi siano trattati speculativi; d’altro lato, bisogna schivare la Cariddi della storicità assoluta, quasi che essi siano da ricondurre al genere dei manuali di storiografia o delle biografie scientifiche. Il loro genere letterario è, in un certo senso, unico, il genere detto appunto “vangelo”, come lo era quello della stessa predicazione che li precedeva. Essi partono dalla storia di Gesù di Nazaret ma non è alla sua ricostruzione rigorosa che dedicano tutti i loro sforzi (si notano facilmente divergenze di ambientazione, formulazione, trama, dettaglio). Quei dati vengono, infatti, interpretati e compresi nel loro significato più profondo e trascendente. E la luce che riesce a perforare la superficie dei fatti di Gesù per coglierne il valore di rivelazione e di salvezza è la pasqua di Cristo, un evento che ha lasciato dietro di sé tracce storiche ma che appartiene a un altro piano, al di là della storia. Se si tiene ben fissa questa qualità, risulta tutto sommato secondaria la questione cronologica, cioè se Marco sia da collocare attorno al 50 (come vorrebbe l’ipotesi che si affida a una fragile e ipotetica identificazione di una presenza di questo vangelo in una manciata di lettere greche di un papiro, il 7Q5, ritrovato tra i documenti della comunità giudaica di Qumran e databile attorno al 50) oppure se il 70, l’anno del crollo di Gerusalemme sotto le armate imperiali romane di Tito, sia la vera e più probabile discriminante temporale. Nella bassa o nell’alta cronologia vale sempre il fatto che i Vangeli sono preoccupati di assumere la storia per trapassarla e per offrirla elaborata non storiograficamente ma teologicamente.
Ciò non esclude, però, che intensa sia stata la ricerca per isolare nei documenti evangelici, caratterizzati da questo intimo intreccio tra storia e fede, la sostanza storica di Gesù di Nazaret, quella sorgente da cui il fiume ha iniziato il suo complesso percorso. Questa investigazione si era avviata in pieno Illuminismo razionalista e aveva registrato correzioni di tiro, lungo però una traiettoria che aveva alla fine delineato una figura bifronte: da un lato, l’uomo Gesù di Nazaret, essere storico che ha lasciato qualche labile traccia nei documenti romani e giudaici e un’impronta marcata nei Vangeli; d’altro lato, ecco Cristo, figlio di Dio, Messia e Signore, che domina nella pagine neotestamentarie. La domanda fondamentale era una sola: il Gesù storico e il Cristo della fede possono essere accordati in un unic o personaggio oppure il secondo prevarica e offusca il primo?
Una risposta che condizionò molto la successiva ricerca storica e teologica del ‘900 fu pronunziata da un professore tedesco, Rudolf Bultmann, docente in un’università di provincia, Marburg, a una novantina di chilometri a nord di Francoforte. Per comprenderla è necessario partire un po’ da lontano e usare termini tedeschi che diverranno comuni nell’esegesi contemporanea. Iniziamo col nome di una “scuola” a cui partecipò anche Bultmann, quella di Formgeschichte. Per illustrarne il metodo ricorriamo a due immagini. Il geologo, quando deve catalogare la sequenza dei “pacchi” di strati di un terreno, deve procedere a un taglio stratigrafico che ne definisca nettamente la successione. Oppure il critico d’arte, quando deve studiare una tela determinando l’elaborazione progressiva del soggetto che su di essa è stato dipinto, può ricorrere anche alla radiografia: essa rivela che sotto la superficie dell’opera finale sono spesso presenti abbozzi o schizzi o varianti. Ebbene, quella “scuola” di ricerca voleva appunto andare al di là della superficie dei Vangeli, cercando di risalire lungo i vari strati, oltre la redazione finale fino alla predicazione dei primi annunziatori del messaggio cristiano e possibilmente fino alla memoria dello stesso Gesù storico.
Il desiderio era proprio quello di approdare alla sorgente, alle parole e alle opere dello stesso Gesù storico. Si cercava, quindi, di delineare la “formazione” (Form) dei Vangeli nella loro storia (Geschichte). Questa formazione si era attuata attraverso il calarsi delle parole e delle opere di Gesù in “forme” (Form) letterarie, simili a piccoli stampi fissi (pensiamo alle parabole, ai racconti di miracoli, ai lóghia, cioè a frasi lapidarie o detti di Gesù, alle polemiche o controversie di Cristo coi suoi avversari e così via). Questa operazione che selezionava e adattava le memorie di Gesù e su Gesù presenti nella cristianità delle origini avvenne, secon do questa “scuola” di studiosi tedeschi sorta ai tempi della Prima Guerra Mondiale, sulla spinta di diversi contesti – chiamati Sitz im Leben, cioè “situazione nella vita” o ambiente vitale – entro cui venivano trasmessi la memoria e il messaggio di Cristo. Per Bultmann si trattava di ambiti popolari, inclini alla creazione di miti e di leggende, pronti a esasperare gli aspetti clamorosi e religiosi, ad adattare e a deformare la vicenda di Gesù secondo le istanze concrete delle varie comunità. Sulla base di queste considerazioni è facile immaginare quale sia stato il risultato dell’investigazione della Formgeschichte e di Bultmann.
La «nuova ricerca». Una parete divisoria invalicabile separa dunque secondo Bultmann il Cristo della fede, a noi pienamente disponibile, dal Gesù storico: non sappiamo nulla del “come” egli abbia parlato, amato, vissuto; non sappiamo nulla dei contenuti della sua predicazione e della sua umanità storica; sappiamo solo che Gesù è stato un dato esistente, e questo ci dovrebbe bastare perché i Vangeli vogliono presentare solo a credenti il Cristo della fede e della gloria pasquale, il Figlio di Dio, il Salvatore. Come aveva affermato un collega di Bultmann, Martin Dibelius, «in principio c’era la predicazione», il kèrygma, l’annunzio di fede, e non il Gesù della storia. La sorgente del cristianesimo, allora, non sarebbe nell’ebreo Gesù di Nazaret ma nel Cristo predicato e creduto, nell’annunzio pasquale degli apostoli. Come è evidente, su una via antitetica rispetto a quella dell’Illuminismo razionalista, anche questi teologi protestanti che procedevano su una via di fede, approdavano però allo stesso esito: il Gesù storico ci sfugge ed è secondario; ad apparirci è, invece, il Cristo glorioso ed è solo lui che deve interessare.
Attorno agli anni ’50 del secolo scorso questo modo di affrontare il problema del rapporto tra Gesù e i Vangeli, detto dagli studiosi l’Old Quest, cioè l’antico modo di far ricerca sul Gesù storico, lasciò spazi o a una New Quest, un nuovo approccio ben più ottimistico sulla possibilità di isolare nei Vangeli componenti storiche riguardanti Gesù di Nazaret. Una delle strade privilegiate fu quella dei cosiddetti “criteri di storicità”, cioè di verifica dell’autenticità storica o meno dei vari dati evangelici. Ne citiamo solo due. Il primo è chiamato convenzionalmente il “criterio di discontinuità”. Sono da ritenersi storicamente autentici i dati dei Vangeli che stridono col giudaismo contemporaneo e rivelano un’originalità tale da non poter essere considerati come un semplice prodotto dell’ambito ebraico (ad esempio, la libertà di Gesù nei confronti delle leggi rituali di purità, le persone di dubbia fama che circondano Gesù, il modo autoritativo con cui sceglie i discepoli, a differenza dei maestri giudaici che erano scelti dai discepoli, e così via). Sono da ritenersi storici anche i dati che stridono con le convinzioni della Chiesa delle origini, come, ad esempio, le tentazioni che presentano un Gesù in balìa di Satana, o le debolezze e i tradimenti degli apostoli o il Gesù battezzato da Giovanni, in posizione di inferiorità, tra i peccatori. Tutti questi dati, infatti, non sarebbero mai stati “inventati” dalla comunità cristiana delle origini perché in contrasto con la loro fede e venerazione nei confronti di Cristo. Quindi dovevano appartenere alla realtà storica in quanto tale.
L’altro criterio è opposto ed è quello detto “della continuità”: è da considerare come storicamente autentico un detto o un atto di Gesù qualora esso non sia anacronistico ma conforme con l’epoca o l’ambiente linguistico, geografico, politico, sociale e culturale dello stesso Gesù ma sia anche intimamente coerente col suo insegnamento e con l’immagine generale. È facile intuire che, se i Vangeli dipingessero il fondale della vita e dell’opera di Gesù coi colori e le figure del mondo greco-romano del II secolo, avremmo qualcosa di simile alle famose “Cene” di Gesù dipinte dal Veronese o di altr i artisti in cui Cristo e i suoi commensali sono inseriti in architetture rinascimentali e con particolari occidentali. Il sospetto sul valore storico degli eventi descritti sarebbe più che legittimo. Ebbene, i Vangeli riflettono invece con una buona approssimazione (non dimentichiamo che essi non sono libri storici in senso stretto) lo sfondo topografico e socio-culturale del I secolo.
Equilibrio decisivo. L’ambiente sociale (lavoro, abitazioni, professioni, strati della società), religioso (le rivalità teologiche tra il movimento “progressista” dei Farisei e quello “conservatore” e “clericale” dei Sadducei, le tensioni messianiche, il ritualismo, la demonologia…), geografico (le tre regioni palestinesi della Galilea a nord, di Samaria al centro e della Giudea al sud, le città come Gerusalemme, Cafarnao, Nazaret e le conferme dell’archeologia), linguistico (il substrato aramaizzante di certe pagine greche dei Vangeli, i cosiddetti procedimenti mnemonici di una civiltà orale) è ben rappresentato dai Vangeli, senza anacronismi eccessivi e sospetti. Osservava uno studioso canadese, René Latourelle: «Non si saprebbe inventare coi vari pezzi presenti nei Vangeli un insieme di dati così complessi coordinandoli nei particolari in un tessuto a maglie molto fitte. La ragione d’essere di questa fedeltà è nella realtà stessa che la produce». Le parabole di Gesù sono l’emblema più significativo di questa coerenza non artificiosa. Una coerenza con l’orizzonte del I secolo dimostrata da quella che viene ora denominata come Third Quest, la “terza ricerca” sul Gesù storico, quella attenta a collocare Gesù nel contesto storico ebraico di quel periodo.
Fermiamoci qui perché fin troppo lungo è stato il nostro itinerario, pur nella semplificazione adottata. Ciò che deve rimanere ben fisso nello studio dei Vangeli è un equilibrio molto delicato ma decisivo. Esso è stato formulato nel linguaggio teologico col termine incarnazione sulla scia di quella celebre affermazione del pro logo del vangelo di Giovanni:ho lógos sarx eghéneto, «la Parola divenne carne». La perfetta trascendenza della Parola creatrice, salvatrice e rivelatrice di Dio entra nella fragilità carnale dell’uomo Gesù di Nazaret, la divinità s’irradia nella storia. Per usare un’immagine del filosofo Soeren Kierkegaard, le due sfere dell’umano e del divino in Gesù Cristo entrano in collisione ma non per un’esplosione di rigetto bensì per un abbraccio. Ed è proprio questa unità che dev’essere correttamente custodita.